Di cosa mi occupo

Consulenze psicologiche per problemi relazionali, familiari, lavorativi, per disturbi depressivi, stati ansiosi e situazioni di stress.

Psicoterapie brevi

Psicoterapie individuali ad indirizzo psicodinamico

Visite psichiatriche con valutazioni cliniche ed eventuali relazioni/certificazioni

Trattamenti farmacologici

Visite psicogeriatriche

COME LAVORO

Mi metto in relazione con l’atteggiamento non giudicante che accoglie tutte le parti della persona anche quegli aspetti che il paziente stesso, a volte, non riesce ad accettare. Il modo in cui il paziente costruisce l’esperienza e qualsiasi cosa emerga spontaneamente nel momento sono accolte come indicatori interessanti e preziose esperienze che possono essere esplorate a vantaggio del percorso terapeutico.

Sentirsi ascoltati senza essere giudicati, in totale apertura, spesso permette di trovare da soli delle soluzioni di grande saggezza: essere ascoltati da una posizione di totale apertura ci informa che potremmo lasciar parlare le parti di noi che non possiamo aprire altrove. Aiuto il paziente a comprendere l’organizzazione interna attraverso la consapevolezza, momento per momento, di pensieri, emozioni, immagini e movimenti, tracciando ciò che emerge in modo naturale e disponibile al cambiamento. I colloqui si svolgono con un ascolto attivo, curioso e attento che supporta il paziente nella sua evoluzione orientando alla consapevolezza delle proprie dinamiche interne ed esterne.

Ho sperimentato che è fondamentale approcciare la persona come un sistema vivente le cui parti sono intimamente connesse e interagiscono continuamente: mente, corpo e spirito sono aspetti essenziali dell’umana natura e ciascuno può essere compreso solo in relazione all’intero al quale appartiene. Perseguo in tal senso un approccio ‘olistico’: nel mondo occidentale, sebbene si inizi ad intravedere un cambiamento di tendenza, i disturbi del corpo e della mente sono trattati in modo separato. Il corpo ha una saggezza evolutiva innata che muove verso la guarigione e la salute, perciò il terapeuta dovrebbe riconoscere e investire sull’intelligenza innata di ciascun individuo.

Indirizzo psicodinamico

Comprende teorie e tecniche derivate dalla psicoanalisi e dai suoi successivi sviluppi, più o meno distanti rispetto il pensiero originario di Freud. In comune a questo indirizzo vi sono:

  • esistenza di una vita mentale inconscia riconoscibile indirettamente da sintomi, comportamenti, pensieri della cui natura, significato e origine l’individuo non è pienamente consapevole;
  • Conflitti e traumi psichici nella vita infantile e adulta come fattori che favoriscono la malattia;
  • l’attenzione non è rivolta solo agli aspetti intrapsichici ma anche a quelli relazionali, intersoggettivi e interpersonali in una visione interattiva della vita mentale tra i diversi elementi che compongono la complessa unità dell’uomo;
  • la possibilità di trattare la sofferenza psichica con interventi di natura psichica mirati a comprendere il perché, il come e il quando di tale sofferenza con molteplici tecniche di psicoterapia;
  • l’importanza di conoscere il mondo interno, le motivazioni e i problemi affettivi anche del curante in misura perlomeno simile a quella richiesta per la conoscenza del paziente. L’attenzione alla personalità del terapeuta si inserisce nell’impostazione di origine psicoanalitica che considera più le somiglianze, le vicinanze e i punti comuni tra normale e abnorme psichico che non le differenze e le disparità psichiche: nel soggetto sano esistono nuclei o parti malate così come nel paziente sono presenti aree e contenuti normali.

L’approccio psicodinamico offre prospettive e ipotesi interpretative atte a capire adeguatamente il mondo soggettivo e relazionale del paziente. Tale approccio ha contribuito a valorizzare la storia individuale e il racconto delle vicende personali ed esistenziali arricchendo il significato dell’anamnesi e della relazionalità terapeutica.

Transfert: È una particolare modalità di relazione, di origine infantile, inconscia e irrazionale in cui il paziente è costretto inconsciamente a rivivere il passato nel presente attraverso la ripetizione di dinamiche più o meno antiche.


Le Terapie farmacologiche

Gli psicofarmaci sono dei composti appartenenti a classe chimiche diverse e utilizzati nel trattamento dei disturbi psichici. Rientrano in questa categoria gli ansiolitici, gli antidepressivi, gli antipsicotici e gli stabilizzatori dell’umore. La psicofarmacologia è il ramo della farmacologia che studia l’azione degli psicofarmaci e la sua nascita risale agli anni 50 con due scoperte casuali: quella delle proprietà antipsicotiche della clorpromazina e di quelle antidepressive di un farmaco utilizzato come antitubercolare. Negli anni 60 invece veniva sintetizzato l’aloperidolo e la prima benzodiazepina. Alla fine degli anni 50 venne utilizzato il primo antidepressivo triciclico: l’imipramina. Pur essendo inizialmente ritenuti di competenza specialistica gli psicofarmaci sono oggi prescritti anche da altri medici.

Ansiolitici. I primi farmaci ad essere utilizzati a scopo ansiolitico e ipnoinducente sono stati negli anni 40 i barbiturici poi sostituiti dalle benzodiazepine. Queste sono una classe abbastanza omogenea di composti che agiscono a livello del sistema nervoso centrale potenziando la trasmissione del GABA, un neuromodulatore dall’attività inibitoria su altri neurotrasmettitori. Il meccanismo comune attraverso cui si realizza l’azione terapeutica delle benzodiazepine è un rallentamento della neurotrasmissione a livello delle aree limbiche e corticali. Le diverse benzodiazepine si distinguono sulla base del tempo di eliminazione e del tipo di metabolismo per essere a durata media, lunga, breve e brevissima. Vanno assunte sotto controllo medico in quanto hanno un potenziale di dipendenza e abuso.

Antidepressivi. Sono farmaci utilizzati nel trattamento dei disturbi dell’umore e di dimostrata efficacia. Tra quelli più utilizzati troviamo:

Gli antidepressivi triciclici. Hanno costituito la base principale della farmacoterapia contro la depressione e l’ansia per quasi trent’anni dal momento che sono stati i primi ad essere scoperti. Sono probabilmente i farmaci più rapidi ed efficaci nel trattamento della depressione ma producono anche effetti secondari e tendono a produrre sedazione o, al contrario, effetto stimolante e a volte sono associate all’aumento di peso nel corso del trattamento.

Inibitori selettivi della ricaptazione della serotonina (SSRI). Possiedono la stessa efficacia dei triciclici ma provocano in genere meno effetti secondari che spesso si riducono tra cui lievi disturbi della digestione all’inizio del trattamento, cefalea o disturbi sessuali. Alcuni esempi sono la fluoxetina (Prozac), la paroxetina, la Sertralina e il citalopram.

Inibitore delle monoaminossidasi (IMAO). Sono poco utilizzati nonostante la loro efficacia a causa dell’interazioni e dell’obbligo a seguire una dieta priva di alimenti fermentati ad alto contenuto di tiramina tra cui insaccati, formaggi fermentati, vino e birra, conserve, aceto o salse, avocado, fichi, banane, gamberi, carne o pesce affumicato.

Inibitori selettivi della ricaptazione di serotonina e Noradrenalina. Sono i farmaci che possiedono un’efficacia più simile a quella dei triciclici inducendo minor numero di effetti secondari: il capostipite è la venlafaxina.

Antipsicotici. Comprendono farmaci appartenenti a classi chimiche diverse che agiscono a vari livelli del sistema nervoso centrale rallentando la neurotrasmissione dopaminergica; sono utilizzati nel trattamento delle psicosi e in genere i nuovi antipsicotici hanno mostrato una migliore tollerabilità nonché una ridotta incidenza di indurre effetti indesiderati a lungo termine. La terapia antipsicotica necessita di essere affiancata da strategie terapeutiche di tipo psicologico e riabilitativo.

Stabilizzatori dell’umore. Sono una classe di farmaci eterogenea. Il capostipite è il litio introdotto nella terapia del disturbo bipolare agli inizi degli anni 70 ad oggi la terapia con sali di litio è indicata sia nella fase acuta della mania che nella prevenzione delle ricadute del disturbo bipolare. Dopo l’introduzione del litio vennero studiati anche la carbamazepina e il valproato di sodio utilizzati come antiepilettici. Questi farmaci richiedono un assidua supervisione clinica soprattutto richiedono periodici controlli della crisi ematica e di altri valori di parametri ematochimici.

I farmaci sono sottoposti a studi molto rigorosi che hanno la finalità di testarne la sicurezza, la tollerabilità, e l’efficacia. Un farmaco si definisce sicuro quando è stato dimostrato non dannoso per la salute e si definisce tollerabile quando gli effetti secondari sono trascurabili rispetto agli effetti terapeutici. Gli studi di efficacia devono determinare se il farmaco è in grado di migliorare o eliminare i sintomi che presumibilmente dovrebbe trattare. Inoltre non è sufficiente dimostrare che quel farmaco è meglio di niente ma necessario anche dimostrare che ha un’efficacia uguale o maggiore a quei farmaci che vengono già utilizzati per trattare una certa patologia. Tutti questi studi ci permettono di essere sicuri che le terapie che arrivano in farmacia costituiscono trattamenti autentici e non ingannevoli.

Qualcosa di simile avviene nel caso delle terapie psicologiche. Negli ultimi decenni sempre più di ricercatori hanno portato avanti studi in ambito psicologico in quanto anche l’intervento psicoterapeutico deve basarsi su studi che dimostrano la sua efficacia su un numero congruo di pazienti.

Le terapie della parola: la narrazione

La narrazione è un’attitudine basilare e costitutiva dell’essere umano, oggetto di interesse sia da parte della psicologia che della neurobiologia.

Narrare si configura come un bisogno o un desiderio che si origina dalla necessità di frapporre uno spazio fra l’irrompere delle emozioni e il sé: le emozioni infatti vanno vissute ma anche pensate e ordinate. La narrazione richiede quindi il ricongiungimento con una dimensione fatta di ricordi e sensazioni ma anche il distanziamento da questa dimensione e infine il ridare significato all’esperienza per riceverne una modulazione. Freud non ha mai parlato di narrazione ma il riferimento alla letteratura è presente in tutti i suoi lavori a partire dal presupposto che poeti e romanzieri abbiano esplorato il mondo dei sentimenti.

Il terapeuta deve essere attento anche alla dimensione non semantica del linguaggio, in quanto le parole non necessariamente vengono usate per comunicare significati ma ne vanno colti il suono, il tono di voce, il ritmo del discorso. Se da un lato la narrazione mira a mettere in contatto il paziente col suo mondo emozionale, dall’altro, utilizzando lo strumento del linguaggio, gli consente anche una presa di distanza da esso. Il terapeuta dovrebbe cogliere le emozioni nel racconto e aiutare a renderle pensabili.

Che cos’è il lavoro terapeutico?

La parola ‘lavoro’ fu utilizzata per la prima volta da Freud per indicare l’impegno del paziente e anche del terapeuta nel processo di cura. La scelta di questo termine non è affatto casuale in quanto, oltre ai significati del linguaggio comune, include quelli di scienze quali la fisica e l’economia. Il lavoro come grandezza fisica è collegato ai concetti di forza, energia, movimento e si riconduce alla conoscenza dello psichico secondo il modello delle scienze naturali. Freud poi parla di un punto di vista economico per indicare gli aspetti della psicologia che descrivono i processi psichici considerando le energie in gioco e i rapporti tra forze. Nondimeno questa prospettiva non si riduce a meri aspetti ‘fisici’ così come gli aspetti corporei non sono solamente riconducibili alla biologia e le esperienze psichiche non sono riducibili solo alla fenomenologia della coscienza. Per Freud il lavoro terapeutici ha a che fare con il lavoro onirico: l’ipotesi di attribuire un senso ai sogni si sviluppa grazie alla pratica dell’interpretazione psicoanalitica che dimostra la possibilità, a partire dal contenuto manifesto del sogno, di accedere a un contenuto latente, molto significativo per il sognatore. Il lavoro psichico nella formazione del sogno costa di due momenti: in un primo tempo avviene la produzione dei pensieri inconsci e in un secondo tempo la loro trasformazione nel sogno manifesto.

Il lutto nella sua accezione più ampia è la reazione alla perdita non solo di persone ma anche di entità astratte investite di affettività (un ideale, un oggetto, il lavoro, una persona ecc.) e le sue manifestazioni sono il disinteresse per il mondo esterno, l’incapacità di rivolgersi a nuovi oggetti d’amore, l’inibizione di ogni attività psicofisica. Questo isolamento indica l’impiego dell’energia nel lavoro del lutto che si svolge internamente. Nelle fasi iniziali del lutto le rappresentazioni dell’oggetto perduto acquistano maggiore intensità emotiva prolungandone per così dire l’esistenza; gradualmente la persona può tollerare di prendere atto della perdita e sciogliere un po’ alla volta l’energia investita nel legame che torna quindi essere disponibile per la vita di relazione.

Emozioni

Con la parola emozione ci riferiamo a un ampio spettro di condizioni affettivo emotive che comprendono stati spesso prolungati, caratterizzati da un particolare umore, le cosiddette emozioni di sfondo, ma anche passioni ‘sociali’ quali l’amore, l’invidia, la gelosia o l’odio, così come brevi e intense esperienze reattive a stimoli esterni. Per le neuroscienze vivere un’emozione è definito come esperire soggettivamente delle risposte fisiologiche interne al corpo, dotate di variabile intensità, che possono accompagnarsi o meno a comportamenti espliciti. E’ esperienza comune sentirsi chiedere conto di uno stato emotivo di cui eravamo inconsapevoli fino al momento in cui ci è stata rivolta la domanda: possiamo trovarci in uno stato emozionale ed esprimerlo con il nostro corpo in maniera manifesta senza esperirne pienamente il contenuto. Cartesio, all’interno di una visione dualistica, descrive le emozioni secondo una tensione fra due tendenze contrapposte che caratterizzeranno il dibattito teorico scientifico sul problema mente/corpo. La ricerca neuroscientifica ha studiato i meccanismi alla base dei nostri comportamenti emotivi mettendo in risalto il ruolo delle strutture sottocorticali del cervello coinvolte, tra cui l’amigdala: essa è coinvolta, nei mammiferi in generale e nell’uomo in particolare, nell’apprendimento, nella memorizzazione, nell’attenzione dei processi in cui entrano in gioco le emozioni quindi nella regolazione del comportamento emotivo e sociale. I circuiti nervosi dell’amigdala sono alla base degli stimoli che evocano paura o avversione:

l’attivazione di un circuito dell’amigdala chiamato sistema sensomotorio consentirebbe l’esperienza cosciente dell’emozione: tale sistema media infatti il processo di ricostruzione di come ci sentiremmo se fossimo noi a provare le stesse emozioni provate da altri. Cioè riconosciamo le emozioni altrui mediante la simulazione incarnata degli Stati corporei ad essi correlati.

Empatia

Il termine, introdotto come traduzione di una parola tedesca dal significato ‘sentire dentro’, nel tempo è stato definito come un processo di attivazione emotiva appropriato e consonante con quello di un’altra persona. L’empatia non è definita da processi cognitivi nel senso che non si tratta di assumere li punto di vista dell’altro, ma è un’esperienza sostanzialmente affettiva di condivisione mediata da processi cognitivi di diversa complessità e quindi un fenomeno complesso. Si è giunti a comprendere che non esiste l’empatia in sé ma diversi tipi di empatia che si collocano lungo un continuum, dalle forme più indifferenziate e meno mediate (dal contagio emotivo, automatico e privo di mediazione cognitiva) a quelle più differenziate, cognitivamente controllate e mediate. Il contagio rappresenta la prima forma di attivazione della condivisione emotiva e può essere considerato un precursore necessario delle forme più evolute di empatia: pur essendo maggiormente presente nella prima infanzia può comparire anche nell’età adulta. Una conferma degli studi psicologici sull’empatia viene dagli studi sui neuroni specchio: questi si attivano quando l’animale osserva un altro animale compiere un movimento.La capacità di riconoscimento delle emozioni è ritenuta un requisito per l’assunzione della prospettiva dell’altro e per la condivisione empatica. L’empatia più evoluta richiede la massima differenziazione tra l’emozione propria e quella altrui ed è caratterizzata dal saper condividere le emozioni di un altro separate e distinte dalle proprie: diventa così possibile comprendere che il vissuto di un’altra persona può essere molto diverso dal proprio in una situazione simile.

gli studi sulla teoria della mente hanno indagato la capacità di rappresentarsi che cosa un’altra persona si sta rappresentando cioè di pensare che cosa l’altro pensa.

Empatia e conoscenza teorica si completano vicendevolmente: l’esperienza personale del terapeuta è importante per consentire immedesimazioni col vissuto del paziente. Egli deve accettare con umiltà l’idea di non essere radicalmente diverso dal paziente e di avere in comune aspetti e processi interni di cui deve essere consapevole; deve inoltre mantenersi ricettivo. Durante una psicoterapia l’empatia non coincide con la sola sintonizzazione concordante: sono in essa comprese tutte le tonalità di colore emotivo e un progressivo condiviso e profondo contatto con l’altro. È un processo complesso che richiede un lavoro di terapeuta e paziente nella reciproca conoscenza.

Trauma

Il trauma psicologico è l’esperienza individuale unica di un evento, una serie di eventi o un insieme di condizioni durature in cui la capacità dell’individuo di integrare la propria esperienza emotiva è sopraffatta. La situazione è valutata come una minaccia per la propria sicurezza e sopravvivenza. La valutazione della minaccia non avviene solo attraverso la cognitività, ma anche attraverso sensazioni e impulsi fisici e fisiologici. Fonti di stress e trauma possono essere incidenti, immigrazione, attacchi, prigionie, disastri naturali, terrorismo, violenza, trascuratezza , minacce e abusi. Parlare di trauma in terapia richiede alcune accortezze ed in particolare attenzione al momento storico autobiografico in cui si trova la persona. Lavorare con trama richiede esperienza e tecniche specifiche.

Il modo in cui il paziente costruisce l’esperienza e qualsiasi cosa sono accolti come indicatore interessanti preziose dell’esperienza naturale che aspetta di accadere e che può essere esplorata vantaggio del percorso terapeutico. L’atteggiamento del terapeuta deve essere non giudicante e accogliere in modo compassionevole tutte le parti e le risposte del paziente e le difese psicologiche ritenute tentativi di gestire esperienze dolorose sono in tese anche come modalità di regolazione anche siamo soliti sono da considerarsi comportamenti ad attivi dagli eventi di vita. Si rinuncia all’idea di come le cose devono essere e di come devono andare in terapeuta accetta che anche il desiderio di ottenere un cambiamento può essere una forzatura e deve essere consapevole auto valutando

FALSI MITI

Gli psicofarmaci creano dipendenza

FALSO: se lo specialista individua l’indicazione alla prescrizione, i farmaci assunti sotto il suo monitoraggio e supervisione possono rivelarsi un valido aiuto per risolvere i disturbi del sonno, quelli dell’appetito e per ridurre l’angoscia limitante o addirittura paralizzante che i lacune fasi e situazioni ci può attanagliare. I farmaci sono da intendersi come strumenti che permettono poi a terapeuta a paziente di mobilitare le risorse dell’individuo e ad uscire dalla crisi.

Gli psichiatri curano i matti

Chiediamoci prima di tutto: cosa vuol dire ‘matto’? Forse una persona che è tutta e solo malattia? Se fosse così non esisterebbe in quanto in tutte le persone possono esserci parti malate e parti sane; inoltre le parti sofferenti di una persona non sono necessariamente malate, magari possono risultare strane o eccentriche agli occhi di chi non le comprende e preferisce quindi non accettarle. Gli specialisti che si occupano di disagio mentale possono avere la tendenza a cercare solo le aree di vulnerabilità della persona e ad attribuire ogni manifestazione a quelle aree mentre spesso a parlare sono parti sane che soffrono in modo reattivo in contesti malati o tossici. Può essere difficile stabilire il confine tra normalità e patologia: secondo i sistemi classificativi vi sono disturbi maggiori, disturbi minori e assenza di disturbi ma la realtà è molto più complessa, variegata e sfaccettata in quanto uno stesso disturbo può avere un valore diverso in momenti differenti della vita di una stessa persona; disturbi cosiddetti minori possono arrecare molto più disagio di disturbi cosiddetti maggiori; i primi possono avere decorso e prognosi peggiore dei secondi o viceversa. Nella pratica clinica si formulano diagnosi ma queste devono essere integrate alla persona e al suo contesto altrimenti non serviranno a granché: Ippocrate diceva ‘ è più importante sapere che tipo di persona abbia una malattia piuttosto che sapere che tipo di malattia abbia una persona in quanto è l’uomo a ospitare i sintomi e non sono i sintomi ad ospitare l’uomo.

La sofferenza è sempre patologica

Viviamo nella società cosiddetta del post-narcisismo ove la performance e l’immagine giocano un ruolo preponderante e dalla nascita viene richiesto di essere funzionanti e competitivi. In tale contesto la sofferenza può essere considerata come un’inutile zavorra che rallenta o addirittura blocca il percorso di vita o che impedisce il realizzarsi della felicità soggettiva. Uno stato di sofferenza più o meno marcato non è necessariamente patologico anzi quando ad un essere umano viene lasciata la possibilità di soffrire, di solito, non si determinano gli stati patologici che tendono a realizzarsi sotto forma di sintomi. Quando la persona non può vivere appieno il proprio dolore, non può sentirlo con l’anima oppure quando il dolore non può essere del tutto compreso e quindi neanche legittimato allora questo prenderà altre vie tra cui quella corporea e potrà manifestarsi attraverso i cosiddetti disturbi psicosomatici e/o malattie anche organiche. La sofferenza in alcune situazioni di vita può essere trasformativa, può essere generativa e persino creativa fino a determinare dei cambiamenti necessari anche se faticosi da realizzare.ntari

Il controllo dello stress

Il termine stress presenta una divergenza di significato tra quello conferito dai professionisti quello che appartiene alla credenza comune: la maggior parte delle persone intende il termine stress nella sua accezione primaria che deriva dalla fisica e che si riferisce a una forza o un peso che produce tensione o deformazione in un materiale. Nell’ambito delle neuroscienze, al contrario, si definisce lo stress come la somma di cambiamenti aspecifici dell’organismo in risposta a uno stimolo. Lo stress rappresenta una risposta automatica dell’organismo a qualsiasi cambiamento ambientale esterno o interno per far fronte alle possibili richieste generate dalla nuova situazione; questo implica un importante aumento del livello di attivazione fisiologica, motoria e cognitiva. Pertanto lo stress dipenderà sia dallo stimolo sia dalla percezione dello stesso da parte dell’individuo e dalle sue risorse per affrontarlo. Determinati stimoli sono vissuti come stressanti da alcune persone, al contrario come facenti parte della quotidianità ad altre: ad esempio la guida ad alta velocità che non è stressante per un pilota professionista lo potrebbe essere per un’altra persona. All’inizio l’iperattivazione della risposta allo stress è efficace in quanto permette di affrontare le richieste dell’ambiente ma una volta superato un certo limite possiede un effetto che disorganizza il comportamento perché l’organismo non può rimanere per troppo tempo in stato di iperattivazione. L’iperattivazione cronica e sostenuta può portare a problemi fisici e psichici come ipertensione, asma, insonnia, disturbi gastrici, ansia, depressione, affaticamento, tremori ecc. La risposta fisiologica allo stress implica un aumento generale dell’attivazione fisiologica e si suddivide in tre fasi:

  1. Fase di allarme. Attivazione fisiologica intensa e immediata che facilita le risorse di fronte a una possibile azione. Se la situazione stressante viene superata termina la sindrome generale di attivazione altrimenti si passa alla fase 2.
  2. Fase di resistenza. Viene mantenuta un’attivazione meno intensa di quella della prima fase ma più intensa del normale. Se la situazione stressante viene superata termina l’attivazione, se invece non viene superata si passa alla fase 3.
  3. Fase di esaurimento. L’organismo esaurisce le sue risorse e perde bruscamente la sua capacità di attivazione.

L’alterazione fisiologica provoca dei cambiamenti a livello ormonale e neurotrasmettitoriale in via diretta, mentre per via indiretta lo stress agisce negativamente su aspetti fondamentali quali ad esempio il sonno. Bisogna inoltre considerare che anche stimoli positivi sono stressanti cioè inducono una reazione.

È molto importante ricordare che di fronte a un cambiamento o un problema è opportuno darsi il tempo di riflettere: la fretta e l’impulsività sono cattive consigliere. Darci il tempo di prendere le decisioni importanti ci permetterà di ricavare un’informazione più obiettiva del problema nonché definire obiettivi realistici e concreti e valutare i costi benefici a breve e a lungo termine.

Ansia

Il termine deriva dai vocaboli latini ‘angus’ che significa agitazione e ‘angere’ che significa stringere/strangolare e individua parte del disagio soggettivo e fisico che l’ansioso può avvertire. L’angoscia dal latino ‘angustia’ è anch’essa un doloroso stato dovuto a dubbio o paura. La paura è definita come stato d’animo costituito da inquietudine e grave turbamento che si prova al pensiero o alla presenza di un pericolo. Nelle scienze del comportamento l’ansia è una reazione di allarme propria dell’istinto di conservazione, un vissuto di attesa di qualche cosa di indefinito, avvertito più spesso come pericoloso a cui generalmente si associano sia sensazioni fisiche (tachicardia, tremori, sudorazione eccetera) sia sintomi di tensione ed ipervigilanza (allerta). Le manifestazioni possono essere simili a quelle della paura ma mentre l’ansia anticipa il pericolo in assenza di un oggetto chiaramente identificato, la paura si riferisce ad uno stato d’animo di inquietudine e turbamento che si prova al pensiero o alla presenza di un pericolo. Pertanto la mancanza dello stimolo, derivato dalla percezione di una concreta minaccia, distingue l’ansia dalla paura. L’ansia è cognitivamente più complessa della paura: la capacità di prevedere il pericolo a distanza di tempo e di spazio, cioè l’ansia, è presente solo negli organismi più evoluti. Nell’ansia patologica la reazione di allarme perde il suo ruolo adattivo teso a preparare l’organismo alla gestione del pericolo e rimane costantemente attivata anche in una condizione di non pericolo. Entro certi livelli l’ansia è sostanzialmente positiva perché aumenta la motivazione e facilita la concentrazione su un compito migliorando il rendimento, mentre a livelli più elevati diventa disfunzionale e ostacola le prestazioni. Per differenziare l’ansia normale da quella patologica oltre all’intensità bisogna considerarne anche la qualità. I disturbi d’ansia sono molto diversi tra loro pur tuttavia raggruppati sotto un comune denominatore ma in realtà tra ansia e paura, è più la paura che può essere assunta come denominatore comune dei disturbi d’ansia i quali sarebbero fra loro distinguibili per l’oggetto e le situazioni stimolo della paura stessa. La paura senza un oggetto specifico è l’essenza dell’attacco di panico; la paura di un oggetto ben definito, ad esempio un animale, viene a caratterizzare le fobie specifiche. La fobia sociale è caratterizzata dalla paura delle situazioni di esposizione sociale dovuta a ipervalutazione e marcata sensibilità al giudizio altrui. Nel disturbo ossessivo-compulsivo ciò che fa paura è un oggetto di per sé difficilmente evitabile, ad esempio lo sporco, per cui il dubbio del contatto non può essere fugato soltanto dalle condotte di avvitamento come accade nelle fobie semplici ma permane e condiziona comportamenti compulsivi volti ad arginarlo, ad esempio lavaggi ripetuti nel caso dello sporco.

Nel disturbo post traumatico da stress la paura è scatenata da un evento traumatico ed è la paura di situazioni o stimoli che richiamano l’evento.

In questa serie di disturbi è certamente presente l’ansia nella sua accezione più comune ma non come fondamento del disturbo quanto piuttosto come conseguenza: ad esempio nel disturbo di panico l’ansia anticipatoria, che per la sua qualità strutturale è assai simile all’ansia comunemente intesa, non è il punto di partenza dell’attacco, ma, in quanto timore che esso si ripeta, è una sua conseguenza. Il disturbo d’ansia generalizzato, caratterizzato dalla apprensività esagerata e disfunzionale, è l’unico in cui il quadro sintomatologico è più vicino alle caratteristiche dell’ansia normale quasi a costituirne una variante quantitativa.

Nella prospettiva biologico evolutiva l’ansia è considerata la principale reazione fisiologica e psicologica messa in atto dall’organismo a scopo adattivo di fronte alle minacce portate dall’ambiente; nell’ottica psicodinamica l’ansia è la manifestazione sintomatica di un conflitto che sottolinea l’incompatibilità tra un desiderio e un’ingiunzione morale, tra desiderio e realtà o tra realtà interna e realtà esterna ma al tempo stesso è anche un segnale adattativo che mette in moto le difese inconsce dell’io finalizzate ad allontanare dalla coscienza pulsioni, sentimenti e pensieri inaccettabili.

Sia nella prospettiva psicodinamica che in quella ispirata alle filosofie esistenziali ansia sembra essere un termine generico per designare qualunque forma di turbamento psichico di fronte a una minaccia dell’integrità della propria umana esistenza.

Depressione

Il termine deriva dal verbo deprimere cioè portare giù, a un livello più basso, affondare. Nel linguaggio corrente indica uno stato d’animo caratterizzato da tristezza, insoddisfazione, noia, svogliatezza e da un’inclinazione pessimista dei pensieri. Questa tonalità affettiva fa parte del normale registro delle emozioni umane cioè una condizione che capita a tutti di attraversare, più o meno spesso, di solito passeggera e lieve abbastanza da non alterare granché la vita quotidiana: si tende a metterlo in connessione con eventi che sembrano capaci di spiegarla. Nel linguaggio psichiatrico invece la parola depressione designa uno stato mentale patologico espresso da una serie di sintomi che con varie intensità compongono la sindrome depressiva.

Mentre la psicoanalisi ha sviluppato la cura della parola per gli stati depressivi, nella seconda metà del novecento la scoperta degli antidepressivi segnò un’altra rivoluzione. In poche decenni il numero dei farmaci antidepressivi è salito rapidamente: con le nuove molecole non è tanto aumentata l’efficacia quanto sono diminuite frequenze e gravità degli effetti collaterali e ciò ha determinato un enorme aumento delle prescrizioni e dell’uso spesso ingiustificato e ha a tratti incoraggiato l’idea di curare l’infelicità connessa al vivere allo stesso modo della malattia depressiva. Le manifestazioni della depressione possono essere raggruppate in quattro gruppi principali: alterazioni emotive, cognitive, psicomotorie e vegetative. Il quadro emotivo è dominato dello scoraggiamento, dal disinteresse per tutto, dall’anestesia affettiva cioè la sensazione dolorosa di non provare più sentimenti, dalla perdita della capacità di provare piacere e dal dolore morale come una sofferenza profonda. Nelle alterazioni cognitive la memoria, la capacità di attenzione e concentrazione possono risultare indebolite. Pensieri e giudizi sono dominati dal pessimismo, da un senso di impotenza colpevole, della svalutazione di sé. L’interesse per il presente è scarso, prevalgono le ruminazioni sul passato. Le alterazioni psicomotorie possono manifestarsi come rallentamento dei movimenti e del pensiero con forza, energia e capacità di iniziativa diminuite. Le alterazioni vegetative riguardano l’appetito e la sessualità; inoltre sono frequenti disturbi del sonno e varie sensazioni di dolore e malessere fisico. Le forme più lievi di depressione sono compatibili con una vita relativamente normale mentre le forme più gravi, ‘maggiori’ nel lessico anglosassone, interrompono il corso abituale dell’esistenza e la melanconia ne é il prototipo. Sintomi depressivi possono essere indotti da cause riconoscibili come ipotiroidismo o alcuni farmaci o altre malattie mentali o fisiche.

Tra i farmaci quasi nessun antidepressivo è in grado finora di produrre effetti terapeutici prima di 10-14 giorni. La psicoterapia è in grado di favorire la remissione dell’episodio soprattutto di lieve e moderata entità e di favorire la prevenzione delle ricadute; la tendenza alle recidive molto comuni impone di continuare i trattamenti farmacologici per almeno sei mesi dopo la remissione dei sintomi e in alcuni casi oltre a seconda della ricorrenza.

I disturbi alimentari  (DAN)

I disturbi dell’alimentazione e della nutrizione  (DAN) sono condizioni caratterizzate da un rapporto alterato con il cibo e con il proprio corpo. Un tempo conosciuti come DCA, cioè Disturbi del comportamento alimentare, sono stati ridefiniti DAN e comportano  conseguenze sul piano organico, psicologico, funzionale e sociale: se gli eventi acuti provocano grande preoccupazione nei familiari e nei sanitari, le conseguenze del decorso cronico si riflettono sul funzionamento professionale, fertilità e genitorialità, relazioni interpersonali e familiari. I DAN hanno costi elevati anche sociali che incidono sulla famiglia e sulla persona in termini di funzionamento relazionale e sociale.

Questi disturbi comprendono in primis Anoressia nervosa e Bulimia nervosa. L’anoressia si manifesta con un’intensa paura di prendere peso e una percezione distorta dell’ immagine corporea. Le persone con anoressia tendono a limitare drasticamente l’assunzione di cibo (restrizione alimentare) e possono anche praticare eccessivo esercizio fisico, arrivando ad una significativa perdita di peso e malnutrizione.
Chi soffre di bulimia va incontro ad episodi di abbuffate durante i quali la persona consuma grandi quantità di cibo in un breve arco di tempo, con perdita di controllo e adotta poi comportamenti compensatori come il vomito autoindotto, l’uso eccessivo di lassativi o diuretici, e l’esercizio fisico esagerato. Le abbuffate sono quasi sempre accompagnate e seguite da sentimenti di vergogna e colpa.

Il Disturbo da alimentazione incontrollata, meglio noto come Binge Eating Disorder,  è caratterizzato dalle abbuffate ma, a differenza della bulimia, non ci sono comportamenti compensatori dopo le abbuffate, il che può portare a sovrappeso o obesità.

Altri disturbi specifici dell’alimentazione e della nutrizione non rientrano in vere e proprie categorie diagnostiche ma possono rappresentare  problemi per la salute. Alcuni esempi includono l’ortoressia (ossessione per il cibo sano), la vigoressia (ossessione per la massa muscolare), la drunkoressia (ove le abbuffate riguardano gli alcolici) e il disturbo da alimentazione notturna.

Questi disturbi possono avere  conseguenze potenzialmente rilevanti sull’apparato cardiovascolare, gastrointestinale, e creare squilibri metabolici, oltre a influire negativamente sulla salute mentale e sulla qualità della vita. È importante riconoscerli e affrontarli con il supporto appropriato.

L’epidemiologia mostra che anoressia e bulimia sono patologie prevalentemente femminili: il rapporto maschi femmine per entrambi è di circa 10:1 ma vi è una netta crescita fra i maschi. Nel corso della vita e della storia clinica di una stessa persona sono molto frequenti le migrazioni da un quadro clinico ad un altro. Una diagnosi e un intervento precoce contribuiscono a ridurre la gravità e la durata della malattia. Come indicano le linee guida, l’approccio terapeutico ai DAN dovrebbe essere multidisciplinare cioè condotto da un équipe di sanitari tra cui indispensabili sono medico nutrizionista o pediatra, dietista, psichiatra o neuropsichiatra a seconda della fascia di età, psicologo ma anche in aggiunta infermieri, educatori per integrare il progetto di cura a seconda della complessità

L’importanza del sonno

La regolarità del sonno è uno dei fondamenti della stabilità del tono dell’umore. Una persona adulta dovrebbe dormire tra le sette e le nove ore al giorno per riprendersi dall’affaticamento fisico e mentale della giornata e per sentirsi bene il giorno dopo. É raccomandabile che queste ore di sonno vengano coperte in maniera consecutiva e durante la notte poiché non è corretto dormire cinque ore e poi realizzare un riposo pomeridiano di due ore per raggiungere le sette ore giornaliere. Oltre a provocare stanchezza e malessere fisico, dormire male o poco causa irritabilità e problemi cognitivi in particolare di memoria. L’ideale sarebbe mantenere orari regolari per tutta la settimana ed evitare l’abitudine ad alzarsi molto tardi nel fine settimana perché ciò può avere dirette conseguenze sulla qualità del sonno nei giorni seguenti. In tal modo se usciamo la sera e andiamo a dormire tardi e’ raccomandabile comunque garantire otto ore di sonno ma ciò deve rappresentare l’eccezione non la regola. Passare un’intera notte svegli perché stiamo lavorando, studiando o ballando è assolutamente sconsigliato per una persona affetta da un disturbo dell’umore: diversi studi dimostrano che dormire poco per due notti consecutive può scatenare una ricaduta. Per quanto riguarda il riposo pomeridiano il tempo massimo consigliabile dovrebbe essere circa 30/60 minuti solo se questo non compromette il riposo notturno.

Alcuni suggerimenti favoriscono l’igiene del sonno e possono aiutare a migliorarne la qualità:

  • Utilizzare il letto solamente per dormire: non è raccomandabile utilizzarlo per studiare o mangiare o altro (si può leggere prima di addormentarsi);
  • Tenere la camera arieggiata durante il giorno;
  • Cercare di non mangiare troppo pesante a cena ed evitare cioccolato e caffè che sono stimolanti;
  • Durante l’ultima mezz’ora prima di coricarsi non è consigliabile utilizzare il computer o guardare la TV dal momento che la luce emanata dallo schermo è stimolante;
  • Se si lavora fino a tardi, bisogna trascorrere un’ora svolgendo un’attività rilassante, ad esempio leggere o ascoltare musica, prima di coricarsi;
  • A seconda delle specifiche situazioni bisogna prestare molta attenzione alla dieta cioè la scelta dei cibi, delle bevande e all’equilibrio elettrolitico soprattutto se si pratica esercizio fisico;
  • Lo sport ha degli effetti positivi se praticato con regolarità e senza eccessi in quanto regola l’equilibrio neuroimmunoendocrino ma non va dimenticato che è un’attività stimolante e impegnativa perciò andrebbe evitato prima di coricarsi.

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